Ci son diversi modi di fare il mediatore perché diversi possono essere gli obiettivi che il mediatore si prefigge (e quindi le modalità con le quali vuole perseguirli).
Spesso tali obiettivi sono frutto di una scelta espressa del mediatore, altre volte invece sono il portato implicito di altri fattori (in particolare la formazione ricevuta, l’esperienza maturata, la sua indole naturale ed il contesto in cui la mediazione si svolge).
Come ho recentemente ricordato nel mio lavoro La mediazione trasformativa (Tiaki Publ, 2018, 15ss) – cui rimando per approfondimenti – possono, grosso modo, essere identificati tre grandi modelli di riferimento cui ogni mediatore (consciamente o meno) fa riferimento:
• Il modello armonico: orientato alla ricostituzione degli strappi che il conflitto comporta sia a livello interpersonale che nell’ambiente in cui i soggetti coinvolti operano;
• Il modello razional-funzionalista: orientato alla identificazione di soluzioni ai problemi identificati come base / espressione del conflitto;
• Il modello relazionale: orientato al superamento degli ostacoli che impediscono o ostacolano la relazione fra le parti.

L’approccio trasformativo può dirsi collocato nel terzo (il modello relazionale), in quanto è orientato al miglioramento della qualità dell’interazione fra le parti.
Vi è un dato peculiare peraltro del modello trasformativo rispetto a quasi tutti gli altri e cioè che esige dal mediatore un approccio non-direttivo (vale a dire non teso a condizionare le parti in lite quanto al modo di confrontarsi o alle risoluzioni da adottare).
La maggior parte degli altri approcci, se non tutti, presentano un grado di direttività più o meno elevato.
Questa differenza di approccio mentale si traduce in differenti strategie che vengono impiegate dal mediatore nella pratica.
Un recente articolo apparso sul blog dell’ISCT ha ad esempio affrontato la questione del ricorso alle c.d. ‘sessioni congiunte’ (vale a dire con tutte le parti presenti) piuttosto che a quelle ‘individuali’ (con solo parte di esse). Il ricorso alle une piuttosto che alle altre esemplifica in maniera evidente la differenza di base fra l’azione dei mediatori trasformativi e quella di mediatori che adottano un diverso approccio. Prendiamo in particolare i mediatori problem-solving, che probabilmente costituiscono la maggioranza dei mediatori oggi operanti. Il loro modello di riferimento può dirsi il secondo di quelli sopra richiamati (quello razional-funzionalista). Consciamente o meno essi perseguono l’obiettivo di ‘metter le parti d’accordo’ (usano infatti dire che la mediazione “ha successo” se si chiude con un’intesa) e per raggiungere tale obiettivo mettono in campo usualmente tecniche diverse (dalle più rozze alle più raffinate), che comunque tendono ad “instradare” le parti verso una soluzione concordata. L’uso delle sessioni separate è una delle più usate, perché permette al mediatore di ricostruire la “vera” mappa delle rispettive esigenze (al di là delle pretese manifestate nel confronto aperto). Funzionale a ciò è, nell’incontro individuale, la confidenzialità dello stesso e l’assenza di fattori perturbanti quali soprattutto la presenza della controparte. Spesso, il mediatore fa uso in ogni sessione separata delle informazioni raccolte nelle precedenti – certo non in maniera plateale (violerebbe l’impegno di confidenzialità), lavorando piuttosto sui pertugi che sa essere aperti, o su prospettive nuove che ha intuito essere attuabili. La distinzione fra i due tipi di sessione (congiunta ed individuale – spesso chiamata caucus, mutuando un termine dal gergo politico statunitense) è quindi decisamente importante per il mediatore problem-solving. Il ricorso alla prima viene fatto di regola in apertura di mediazione e poi solo quando le prospettive di un accordo possono dirsi assai buone. Il rischio è che il castello di carte crolli ed occorra ripartire da zero (molti mediatori infatti evitano del tutto di mettere insieme le parti e nel corso dell’intera sessione di mediazione vanno da una stanza all’altra per consultare separatamente le parti, che quindi mai si trovano faccia a faccia).
Nell’ottica trasformativa una tale differenza non ha un gran senso. Il termine “sessione congiunta” viene raramente utilizzato, dato che è la modalità ovvia con cui la mediazione si tiene. Le sessioni individuali possono anche esserci, ce una parte ne manifesta il bisogno, ma ciò nei fatti accade poco frequentemente.
Il fatto è che il mediatore trasformativo interpreta il suo ruolo, come sopra ricordato, nel senso di supportare il miglioramento dell’interazione fra le parti. E se queste non si parlano, non c’è alcuna interazione. Questo viene esplicitato dal mediatore sin dai primi contatti con le parti, spiegando loro che il ruolo del mediatore è quello di aiutare le parti ad avere un confronto costruttivo e che ogni decisione al riguardo è comunque a loro rimessa.
Intendiamoci, quindi, in base al principio di non-direttività, il mediatore trasformativo rispetta l’eventuale desiderio/esigenza delle parti di starsene ognuna nella propria stanza e non incontrarsi. Quel che comunque il mediatore in genere evita di fare in tali casi è quella di agire da latore di messaggi da una parte all’altra, perché inevitabilmente personalizzerebbe tali messaggi e assumerebbe il controllo sugli stessi e sull’andamento dell’interazione che si realizza così fra parti distanti.