Il Tea Break di giugno 2021 è stato dedicato alla transformative business mediation, cioé alla mediazione trasformativa utilizzata in un contesto ‘commerciale’ o ‘d’affari’.

Ha curato l’evento Alessandra Papa.

La registrazione la trovate sul canale YouTube AMT qui.



Note a cura di Carlo Mosca

Preliminarmente, Alessandra ha richiamato la peculiarità della mediazione, come mezzo di gestione di controversie di tipo ‘business’ rispetto al tipico approccio negoziale diretto.

Ha sottolineato poi (04:47) l’universalità dell’approccio trasformativo, applicabile ai conflitti indipendentemente dall’oggetto di discussione (che si tratti di questioni d’affari o altro, le dinamiche del conflitto e dell’interazione fra gli interessati non cambiano).

A proposito Alessandra ha richiamato quanto emerso in occasione delle due giornate di Firenze dedicate all’agency. Per la parte business io ho curato appunto un workshop in materia.

I partecipanti alla chiacchierata dell’8 giugno ha riportato varie esperienze fatte sul campo. Tra queste:

  • (08:20) lite fra soci per una divisione di uno studio fra due professionisti. Si è rivelata essere non solo questione di soldi…
  • (10:45) mediazione fra banca e cliente, nella quale avere al tavolo la responsabile della customer satisfaction è stato decisivo per ricostituire il rapporto ‘umano’ fra istituto e sua cliente.
  • (12:34) altro caso di lite banca/cliente, in cui la banca era presente solo in persona dei suoi avvocati e quindi si è di fatto impedita una reale comunicazione fra i protagonisti del conflitto.
  • (15:53) caso simile al precedente, con la differenza che l’avvocato della banca aveva lavorato in precedenza per la stessa e quindi è stata in grado di rappresentare efficacemente le esigenze dell’istituto.
  • (19:35) mediazione fra investitore immobiliare e assicurazione.
  • (22:08) lite fra due fratelli che hanno ereditato un’impresa, che ha evidenziato un conflitto risalente che condizionava la qualità dei rapporti e la capacità degli interessati di trovare soluzioni.

 

Fra i principali temi emersi:

  1. (15:00) (24:15) La logica diversa che governa i comportamenti dei diretti interessati piuttosto che dei loro clienti (questi ultimi avrebbero, a differenza dei primi, bisogno di tempo per realizzare la situazione ed elaborare i conseguenti comportamenti)
  2. (18:30) Perplessità quanto all’applicabilità del modello trasformativo (almeno in una forma che è stata definita ‘pura’) alle liti d’affari, sul presupposto che i contendenti sono interessati al risultato, non all’avere un dialogo.
  3. (54:30) conflitti intrattabili e pretesa inadeguatezza dell’approccio trasformativo per gestirli.

 

È stato poi manifestata la curiosità di sapere come, in pratica i mediatori trasformativi intervengono in liti commerciali.

Allora, al riguardo, direi che sono emersi tre topoi ricorrenti:

  1. l’idea che gli interventi del mediatore è bene siano parametrato (non tanto ad una ‘scuola’ piuttosto che un’altra, bensì) alle esigenze poste dalla specifica situazione affrontata, in particolare tenuto conto del particolare settore (es. business, familiare, eredità, bancarie, altro…) o del livello d’intensità del conflitto
  2. L’idea che l’approccio trasformativo possa essere combinato ad altri (appunto in ragione di quanto esige la situazione)
  3. l’idea che l’approccio trasformativo tutto sommato non vada troppo bene (o comunque sia meno efficace di altri) quando si parla di soldi.

 

A mio avviso tutte e tre le affermazioni sono il portato di falsi miti. Vediamo perché-

Quanto all’idea n. 1) (gli interventi sono motivati dalle sole circostanze). Sono d’accordo salvo due rilevanti specifiche.

La prima: all’affermazione va aggiunto “… all’interno di un sistema coerente di riferimento”. Ogni mediatore infatti ne ha uno (cosciente o meno di averlo) nel senso che, necessariamente, interpreta il ruolo in un preciso modo: certe cose vanno fatte, altre no. Lasciamo perdere mediatori che non san quel che fanno e operano a casaccio. Forse ce ne sono, ma è neppure il caso di considerarli.

E questo si chiama ‘orientamento’, che si traduce poi nell’adozione di un determinato ‘approccio’ piuttosto che di un altro.

Se ci limitiamo a più diffusi orientamenti/approcci, ne sono da ricordare almeno tre:

  • un orientamento che potremmo chiamare ‘armonico’ (il più risalente ed ancor oggi molto diffuso) perché i mediatori che lo adottano interpretano il loro ruolo sostanzialmente come agenti della ricomposizione del conflitto. Il conflitto è strappo (delle relazioni interpersonali ma anche dell’ordine sociale in cui gli interessati si muovono) ed il mediatore può/deve aiutare a ricucirlo (per il bene degli interessanti, ma anche di tutti gli altri che sono comunque toccati dalla vicenda)
  • un orientamento che potremmo chiamare ‘razional-funzionalistico’ (anche assai risalente ed assai diffuso) perché i mediatori che lo adottano interpretano il loro ruolo sostanzialmente come agenti della identificazione (e sperabilmente, di formalizzazione) di soluzioni ai problemi emersi (le tecniche variano e sono arrivate a livelli di sofisticazione elevata). Possiamo per semplicità definire questi mediatori come problem-solvers, ‘soluttori di problemi’.
  • un orientamento che potremmo chiamare di ‘supporto all’autodeterminazione’ (molto più recente rispetto agli altri due e tipico di approcci come quello trasformativo) perché i mediatori che lo adottano interpretano il loro ruolo sostanzialmente come agenti di supporto ad un’autonoma trasformazione della qualità dell’interazione conflittuale. A differenza dei primi due, questo orientamento rifugge da interventi direttivi (vale a dire volti, in maniera più o meno esplicita, ad orientare il confronto fra gli interessati verso soluzioni o modi di interazione considerati dal mediatore come più opportuni). Un mediatore trasformativo orienta i suoi interventi nel senso di aiutare le parti coinvolte (i) a capire meglio la situazione e prendere in autonomia decisioni conseguenti nonché (ii) instaurare e mantenere, se lo ritiengono, un confronto costruttivo.

 

Se non operiamo la specificazione proposta (la scelta fra i vari interventi disponibili deve avvenire all’interno di un sistema coerente di valori) tutte le vacche diventano nere e si perde la capacità di cogliere la ‘qualità’ di un intervento (una volta svincolato dall’orientamento all’interno del quale viene attuato). L’orientamento, infatti, fornisce la cornice per così dire ideologica all’interno della quale gli interventi vengono posti in essere; se alcuni interventi sono espressine univoca di certi orientamenti[1]; altri alcuni interventi si manifestano allo stesso modo anche se praticati in approcci diversi[2]).

Il fatto di ‘fare’ un intervento piuttosto che un altro viene da molti mediatori vissuto come esempio di elastico adattamento alla situazione. L’attenzione però è spesso posta a livello di interventi, non di orientamento (manca in molti mediatori – non è però il caso di quelli che hanno partecipato alla discussione – la consapevolezza che esistono orientamenti/approcci diversi).

In definitiva, è corretto dire che il mediatore deve adattare il tipo di interventi alla situazione (ovvio), ma la gamma di interventi disponibili inevitabilmente è quella di un determinato orientamento. Si creerebbe, altrimenti, una contraddizione irrisolvibile fra ambizioni del mediatore di agire a certi fini e mezzi concreti per farlo.

Esempi pratico: un mediatore trasformativo non decide di usare il reframing alla luce della situazione (soprattutto quanto un problem-solver lo farebbe). Non lo usa e basta, perché farlo significherebbe porre in essere un intervento ai suoi occhi direttivo, se non manipolatorio, il che è contrario a come lui intende il suo ruolo di mediatore. Cambiando parrocchia: un problem solver non rispecchia telle quelle (in genere) un’espressione offensiva espressa da una parte (come farebbe un trasformativo), perché lo riterrebbe incompatibile con l’idea che ha del suo ruolo.

La seconda: … e considerando che le dinamiche conflittuali tendono a presentarsi in forma analoga, indipendentemente dal contesto e dall’oggetto di discussione. IL punto è stato oggetto di osservazioni nella fase iniziale della discussione e passerei oltre.

Quanto all’idea n. 2) (l’approccio trasformativo sarebbe mixabile con altri, a seconda della situazione). Sono decisamente contrario anche se è abbastanza diffusa l’idea che esisterebbe uno approccio per così dire ‘eclettico’.

L’idea tradisce, a mio avviso, scarsa dimestichezza (almeno) con l’approccio trasformativo. Come sopra detto, vi sono differenze sostanziali, di fondo, fra approccio trasformativo e altri approcci (possiamo generalmente considerare tutti quelli caratterizzati da direttività).

Anche in tal caso mi pare l’asserzione presenti la fallacia di restare sul piano di confronto fra ‘interventi’. È naturale che alcuni interventi posti in essere dai mediatori trasformativi suscitino interesse, se non fascinazione, in mediatori di altro orientamento e nulla vieta che possano essere utilizzati. Non possiamo però mescolare i presupposti come detto sopra ‘ideologici’ che marcano le differenze fra orientamenti.

Quanto infine all’idea n. 3) (l’approccio trasformativo è inadeguato a gestire conflitti relativi a questioni economiche). L’idea è risalente. Probabilmente alimentata dal fatto che storicamente la mediazione trasformativa si è affermata in settori quali i conflitti di comunità ed in ambiente di lavoro, mentre nel mondo tipicamente ‘corporate’ si è affermata soprattutto la mediazione problem-solving.

È un’idea errata, però, e lo dimostra la pratica utilità dimostrata sul campo dall’approccio trasformativo in conflitti riguardanti vendite, appalti, contratti di licenza, acquisizioni societarie, …

Per tacere del fatto che pure i conflitti c.d. comunitari ed in ambiente di lavoro non sono esenti da considerazioni banalmente economiche.

Una prima osservazione che va fatta è che la mediazione, in generale, è un modo di gestione del conflitto che si realizza comunque in un confronto (a volte in presenza a volte a distanza) fra persone. L’ipostatizzazione di un conflitto fra società (o organizzazioni d’altro tipo) regge sino ad un certo punto, perché l’interazione inevitabilmente avviene sempre fra soggetti persone fisiche, o gruppi (qui il discorso si complicherebbe, ma nella sostanza non cambia). Quello che possiamo osservare è che qualsiasi organizzazione coinvolta in un conflitto ha modi di azione/reazione e posizionamento alla fin fine analoghi a quelli di una persona fisica.

L’altra osservazione è che la componente ‘economica’ di un conflitto è appunto una componente come un’altra (e spesso neppure la principale). Come visto sopra, un mediatore trasformativo aiuta un’organizzazione in conflitto (meglio, le persone che agiscono per conto della stessa, ai più vari livelli decisionali) ad assumere decisioni ed avere un confronto che sia per loro utile. Che si discuta di soldi è fenomeno assai frequente e che un approccio del genere risulti utile è constatazione di fatto.

 

[1] Un esempio per tutti è il reframing, vale a dire la riproposizione sotto diversa angolatura, da parte del mediatore, di un’affermazione fatta da una parte. L’intento è vario: a volte di tratta di depotenziare l’affermazione, depurandola delle sue note più caustiche, al fine di renderla più accettabile o meno offensiva per l’altra parte. Altre volte l’idea è di evidenziare fattori di comunanza piuttosto che quelli di divergenza fra le posizioni assunte dalle parti. Altre ancora, quella di sollecitare ulteriori elaborazioni verso soluzioni che il mediatore ritiene possibili, o utili… In definitiva. Comunque, un intervento che si colloca tipicamente fra quelli praticati per restare alle categorie sopra viste da mediatori problem-solving o arminici, non certo da quelli trasformativi.

[2] È il caso delle domande. Chiedere qualcosa può bene rientrare nell’armamentario di un mediatore problem-solving o armionico; ma lo stesso vale anche per un mediatore trasformativo. Quello che cambia è il ‘perché’ il mediatore fa una domanda. La differenza la fa l’orientamento.